Alla ricerca del tempo perduto con ?Le signorine di Wilko?
?Le signorine di Wilko? in programma al Teatro Alighieri di Ravenna dal 9 al 12 dicembre esprime un modo di fare teatro innovativo quanto a tempi, immagini, gestualit?, sonoro rispetto alla tradizione del teatro italiano che si fonda principalmente sul testo recitato. Il merito ? indubbiamente di Alvis Hermanis, regista lettone, direttore artistico del Nuovo Teatro di Riga e vincitore del IX Premio Europa Nuove Realt? Teatrali, considerato il poeta dell’estetica iperrealista che ha messo in scena il romanzo omonimo di Jaroslaw Iwaszkiewicz, uno dei pi? importanti scrittori della letteratura polacca contemporanea gi? oggetto di una trasposizione cinematografica di Andrej Wajda in corsa per l’Oscar. Unico protagonista maschile ? il quarantenne Viktor Ruben, che a distanza di quindici anni torna a Wilko, nel villaggio in cui trascorreva l?estate negli anni degli studi universitari in compagnia di sei sorelle. Tutto inizia con il risveglio di Viktor nella sua stanza in un vero elogio della lentezza e con il suo passaggio a Wilko nel tentativo di riallacciare legami interrotti. Le sorelle, una alla volta, emergono da un vecchio armadio come fantasmi che si materializzano sulla scena e travolgono l’uomo in un vortice di azioni. Una delle sorelle ? morta, ma sorprendentemente interagisce con le altre in un’azione corale che non ha un epicentro n? una precisa scansione temporale. Tutto ? basato sul continuo confronto fra il ?qui e ora? e il ricordo di ci? che ? avvenuto in passato. Cos? si riallacciano rapporti a due dominati dalla curiosit? e dal desiderio erotico nel tentativo vano di recuperare, con l’immediato piacere, anche le illusioni della giovinezza. Il tempo aleggia continuamente sui protagonisti, alluso nelle conversazioni e richiamato dalle noti suadenti di vecchie canzoni trasmesse dalle radio d’epoca. Alcune teche di vetro, elementi mobili di scenografia, diventano teatrini che consentono al protagonista di isolarsi singolarmente con ciascuna delle sorelle in una parvenza di privacy regolarmente invasa dalle altre, sei donne diverse che a tratti diventano, come ci svelano certe scene, un corpo unico, una massa allacciata in un inscindibile abbraccio. La musica di stampo demod? che si accende a tratti pervade con un senso di decadenza luoghi e persone, mentre le donne si dedicano ai loro riti collettivi (i giochi, i pasti, la fabbrica della marmellata) da cui si separano temporaneamente stravolte dalla presenza maschile e dal desiderio di piacere come ai tempi della giovinezza. Le visioni che si accavallano freneticamente senza dare il tempo di essere metabolizzate assomigliano al fluire dei ricordi, la parola ? essenziale, allusiva, poetica, i costumi in perfetto stile 1940, che passano dal taglio severo delle giacche agli abiti frivoli fino ai seducenti completini intimi intravisti o smaccatamente esibiti hanno il tratto sicuro del costumista Gianluca Sbicca. La coreografia di Alla Sigalova, le luci di Paolo Pollo Rodighiero e le scene di Andri Freibergs sono efficaci e funzionali alla trama, le immagini coinvolgono e le melodie avvincono con la loro polverosa malia. Qualcosa rimane inespresso, non sufficientemente indagato ma forse il fascino dell’opera ? proprio in questa sua indeterminatezza, nel rimanere sospesa fra presente e passato, fra realt? e sogno, fra ci? che poteva essere e non ? stato, nel contesto dell’eterno divario fra mondo maschile e mondo femminile. Il regista ha spostato l’azione dagli esiti della prima guerra mondiale a quelli della seconda, a cui forse rimanda quel mucchio di scarpe buttate sul palcoscenico a richiamare residuati dei campi di concentramento, poveri oggetti inanimati a raccontare tante vite perdute. Un grande applauso alle interpreti femminili Laura Marinoni, Patrizia Punzo, Elena Arvigo, Irene Petris, Fabrizia Sacchi, Alice Torriani e a Sergio Romano che si cala nei panni dell’incompiuto Viktor Ruben, incapace di decidere e gi? pronto a fuggire nella suo ?anonimato quotidiano?, .coralmente armonici come il suono di un’orchestra e singolarmente ineccepibili, in una produzione dell?Emilia Romagna Teatro Fondazione, Programma Cultura dell’Unione Europea nell’ambito del Progetto Prospero.
Attilia Tartagni 10.12.2010
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Alla ricerca del tempo perduto con ?Le signorine di Wilko?
?Le signorine di Wilko? in programma al Teatro Alighieri di Ravenna dal 9 al 12 dicembre esprime un modo di fare teatro innovativo quanto a tempi, immagini, gestualit?, sonoro rispetto alla tradizione del teatro italiano che si fonda principalmente sul testo recitato. Il merito ? indubbiamente di Alvis Hermanis, regista lettone, direttore artistico del Nuovo Teatro di Riga e vincitore del IX Premio Europa Nuove Realt? Teatrali, considerato il poeta dell’estetica iperrealista che ha messo in scena il romanzo omonimo di Jaroslaw Iwaszkiewicz, uno dei pi? importanti scrittori della letteratura polacca contemporanea gi? oggetto di una trasposizione cinematografica di Andrej Wajda in corsa per l’Oscar. Unico protagonista maschile ? il quarantenne Viktor Ruben, che a distanza di quindici anni torna a Wilko, nel villaggio in cui trascorreva l?estate negli anni degli studi universitari in compagnia di sei sorelle. Tutto inizia con il risveglio di Viktor nella sua stanza in un vero elogio della lentezza e con il suo passaggio a Wilko nel tentativo di riallacciare legami interrotti. Le sorelle, una alla volta, emergono da un vecchio armadio come fantasmi che si materializzano sulla scena e travolgono l’uomo in un vortice di azioni. Una delle sorelle ? morta, ma sorprendentemente interagisce con le altre in un’azione corale che non ha un epicentro n? una precisa scansione temporale. Tutto ? basato sul continuo confronto fra il ?qui e ora? e il ricordo di ci? che ? avvenuto in passato. Cos? si riallacciano rapporti a due dominati dalla curiosit? e dal desiderio erotico nel tentativo vano di recuperare, con l’immediato piacere, anche le illusioni della giovinezza. Il tempo aleggia continuamente sui protagonisti, alluso nelle conversazioni e richiamato dalle noti suadenti di vecchie canzoni trasmesse dalle radio d’epoca. Alcune teche di vetro, elementi mobili di scenografia, diventano teatrini che consentono al protagonista di isolarsi singolarmente con ciascuna delle sorelle in una parvenza di privacy regolarmente invasa dalle altre, sei donne diverse che a tratti diventano, come ci svelano certe scene, un corpo unico, una massa allacciata in un inscindibile abbraccio. La musica di stampo demod? che si accende a tratti pervade con un senso di decadenza luoghi e persone, mentre le donne si dedicano ai loro riti collettivi (i giochi, i pasti, la fabbrica della marmellata) da cui si separano temporaneamente stravolte dalla presenza maschile e dal desiderio di piacere come ai tempi della giovinezza. Le visioni che si accavallano freneticamente senza dare il tempo di essere metabolizzate assomigliano al fluire dei ricordi, la parola ? essenziale, allusiva, poetica, i costumi in perfetto stile 1940, che passano dal taglio severo delle giacche agli abiti frivoli fino ai seducenti completini intimi intravisti o smaccatamente esibiti hanno il tratto sicuro del costumista Gianluca Sbicca. La coreografia di Alla Sigalova, le luci di Paolo Pollo Rodighiero e le scene di Andri Freibergs sono efficaci e funzionali alla trama, le immagini coinvolgono e le melodie avvincono con la loro polverosa malia. Qualcosa rimane inespresso, non sufficientemente indagato ma forse il fascino dell’opera ? proprio in questa sua indeterminatezza, nel rimanere sospesa fra presente e passato, fra realt? e sogno, fra ci? che poteva essere e non ? stato, nel contesto dell’eterno divario fra mondo maschile e mondo femminile. Il regista ha spostato l’azione dagli esiti della prima guerra mondiale a quelli della seconda, a cui forse rimanda quel mucchio di scarpe buttate sul palcoscenico a richiamare residuati dei campi di concentramento, poveri oggetti inanimati a raccontare tante vite perdute. Un grande applauso alle interpreti femminili Laura Marinoni, Patrizia Punzo, Elena Arvigo, Irene Petris, Fabrizia Sacchi, Alice Torriani e a Sergio Romano che si cala nei panni dell’incompiuto Viktor Ruben, incapace di decidere e gi? pronto a fuggire nella suo ?anonimato quotidiano?, .coralmente armonici come il suono di un’orchestra e singolarmente ineccepibili, in una produzione dell?Emilia Romagna Teatro Fondazione, Programma Cultura dell’Unione Europea nell’ambito del Progetto Prospero.
Attilia Tartagni 10.12.2010